da www.ilsole24ore.com

C'era una volta il "popolo della rete", aveva una voce inconfondibile. Era l'avanguardia che ha iniziato a praticare la rete nelle prime Bbs (primordiali bacheche elettroniche) negli anni Ottanta. Tecnologi, come venivano definiti in tono un po' sprezzante, innovatori come hanno dimostrato di essere. Prima sui blog e poi sui social network hanno dato vita a un passaparola colto vagamente webcentrico, più spesso volutamente inaccessibile ai più. L'urgenza allora era capire internet, studiarne le potenzialità, produrre contenuti, esprimere concetti all'altezza di una globalizzazione finora mai praticata. In pratica, si doveva parlare un po' difficile su internet. Tanto da costringere sondaggisti e istituti di ricerca a dover distinguere tra early adopter e prosumer da una parte, e poi tutti gli altri. Tra una minoranza anglofona, laurea-munita che aveva attivato il modem prima degli altri, e il Paese. Gli elettronici appassionati di gadget che imparavano a comunicare sui blog e quelli con il telecomando e la partita di calcio alla domenica. Poi qualcosa è finalmente cambiato.
«Il web non più uno spazio occupato solo da avanguardie tecnologiche. Da innovatori e primi adottanti, per dirla con Geoffrey Moore. Ma è ormai dominio di tutti», spiega Vincenzo Cosenza, responsabile di Blogmeter e autore del libro "Social Media Roi" (Apogeo).
Negli ultimi anni gli strumenti di analisi dei social network hanno cominciato a rimandare l'immagine di un Paese apparentemente più "normale" (o forse più verosimile) anche nell'oggetto delle discussioni: calcio, dolci, sport, televisione e politica. Il Milan e la Ferrari sarebbero le grandi passioni degli italiani se si considera la numerosità dei fan su Facebook, rileva una ricerca di Blogmeter. Ma lo dimostra anche la quasi coincidenza del numero di utenti medi giornalieri del web, 14 milioni secondo Audiweb/Nielsen, col numero degli italiani che accedono almeno una volta al giorno al social network di Mark Zuckerberg.
«Il rapporto tra gli italiani e Facebook - aggiunge Cosenza - è ormai una faccenda seria. Si scelgono i social network per comunicare ma anche per esprimere la propria passione per i marchi e per porre domande alle aziende. Anche Twitter è ormai il luogo della convivenza degli early adopter e della early majority. Si vede chiaramente dalla nostra analisi semantica di 32 milioni di tweet che mostra come i maggiori temi di conversazione siano i fatti di cronaca, ma anche le trasmissioni televisive di massa come Amici e Mistero». Chi l'avrebbe detto? Un drammatico trionfo digitale del nazionalpopolare, per usare le categorie della critica radiotelevisiva. La vittoria della tv che ha imposto la sua "agenda" al web? La sconfitta della rete che non è riuscita a esprimere in modo compiuto un modello alternativo di partecipazione attiva? Le cronache politiche sembrerebbero affermare il contrario. Le analisi su tweet e social network invece certificano l'ingresso reale dei marchi e delle aziende sui social media. Ed è anche questo il secondo dato di discontinuità rispetto al passato. Otto aziende su dieci usano Facebook, sette Youtube, sei Twitter e solo il 17% ha dato vita a un blog. La ricerca Brands & Social Media (Università Cattolica e Digital Pr) avverte però che la confusione regna ancora sovrana.
Sono pochissime le aziende soddisfatte della loro relazione attraverso i social media con il loro pubblico. Come dire, le metriche e gli strumenti di misurazione del passaparola ci sono ma sono ancora poco utilizzate o mal comprese. Per esempio: come sostiene lo studio non conta il numero dei social media utilizzati ma il modo in cui viene sfruttata la specificità di ogni singolo social media. Il numero di fan, follower e views sono solo alcune delle variabili da prendere in considerazione. Gli esperti di marketing online hanno soprattutto compreso che i social media non sono solo online: «Le strategie che mostrano risultati migliori sono quelle che sanno instaurare continuità e coerenza fra il mondo della comunicazione online e offline». In qualche modo il web ha smesso di essere percepito come una scatola chiusa autoreferenziale, irriducibile alle leggi e regole del mondo offline e lontano dall'immaginario culturale del Paese.
Al tempo stesso però il fantomatico popolo della rete non è assimilabile all'attività di qualche opinion leader digitale o misurabile da qualche algoritmi ben camuffato. L'agenda di internet, per fortuna, per quanto condizionata (e questi studi lo dimostrano) ha dinamiche diverse da qualsiasi altro ecosistema mediale. Si rischia per esempio di incontrare e dialogare sempre con le stesse persone (come offline) e imparare sempre dalle stesse fonti di informazioni (come nel mondo reale). Ma almeno non si ha più la sensazione di essere così diversi. Di essere rappresentanti di un popolo della rete che oggi non ha più davvero ragione di esistere.

 

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