Da: www.repubblica.it

E' un bene o un male che nei paesi tecnologicamente avanzati internet svolga un ruolo così decisivo anche nelle vicende politiche, addirittura nei rapporti tra gli stati? E' un elemento di debolezza per questi stessi paesi la divulgazione di dati riservati, come nel caso WikiLeaks? Quello che è successo dimostra forse che la rete è un pericolo? Queste e altre domande si sono ripetute in questi ultimi mesi, come per un effetto rebound dopo gli entusiasmi sul ruolo del web nell'elezione di Obama. Insomma una grande agitazione che nasconde talvolta pulsioni pericolose.
D'altra parte, spesso si è invocato in questi anni il termine rivoluzione digitale, se n'è parlato sia a proposito di internet sia a proposito di altri media. Ma il termine "rivoluzione" è anch'esso un po' pericoloso, anche se è un termine efficace da un punto di vista comunicativo. Perché? La rivoluzione storicamente è un fatto drammatico e improvviso - non nelle cause ma nella manifestazione - è un evento che rompe quasi inaspettatamente un segmento storico ed in genere produce delle estremizzazioni cui fanno seguito forme di restaurazione. Perciò speriamo di non parlare oggi di rivoluzione per assistere tra qualche tempo ad un ritorno all'Ancien Régime. Primi avvisi: alcuni atteggiamenti censori di qualche governo - non soltanto di Paesi autoritari, ma anche di governi dell'Occidente democratico - nei confronti della libertà della rete.
Quindi,
più che di rivoluzione, sarebbe meglio parlare di un processo incrementale, quasi di un'evoluzione darwiniana, dei mezzi di comunicazione. Questo tuttavia rende di fondamentale importanza il ruolo che condizionamenti esogeni, come la regolazione, possono avere sull'evoluzione della tecnologia. Non c'è dubbio che l'attuale quadro regolatorio rappresenti un modello ormai vecchio, sia sotto il profilo delle regole di sistema, sia sotto il profilo della governance, e che quindi debba cambiare per adeguarsi a questo processo di convergenza dei mezzi e degli strumenti di comunicazione.
Si discute in Italia, ormai quasi per abitudine. Ci si sofferma su interpretazioni datate anche dei termini costituzionali che entrano in gioco nella materia: l'art. 21, sul pluralismo e la libertà di informazione, l'art. 41 sulla libertà di concorrenza. Termini di grande valore che però devono oggi assumere significati diversi in un contesto di "convergenza" delle manifestazioni di libertà.
Siamo di fronte a un bivio ed è la stessa convergenza - e il digitale che ne è lo strumento - che ci chiama a decidere se e quali regole devono essere definite. Ammesso poi che ne debbano essere stabilite, perché può anche darsi che non servano. Internet infatti dimostra come l'assenza di regole e la fiducia intrinseca che si è creata nel sistema e nella tecnologia, abbia consentito al mezzo di svilupparsi con grandi benefici per l'umanità. Non significa che Internet sia un sistema perfetto, certo è che l'assenza di regole imposte dall'alto ha consentito in buona misura lo sviluppo di questa infrastruttura nel modo in cui oggi la conosciamo.
Le questioni dovrebbero perciò essere poste partendo da due ordini di problemi. Il primo: l'accesso alla rete, che è diventato un tema discriminante, e che comprende aspetti fondamentali come la net neutrality e il servizio universale. Si è parlato di potere di scelta offerto dalle nuove tecnologie, ma il potere di scelta si esercita solo se si è nella possibilità di accedere; se non si ha questa possibilità, non si ha libertà di scelta. Il tema della garanzia dell'accesso si risolve quindi in un approccio orientato a salvaguardare quanto più possibile la neutralità e a dare a tutti i cittadini un livello minimo di servizio.
Il secondo problema: i contenuti. E' chiaro che ci sono aspetti che riguardano l'economia del sistema e aspetti che riguardano alcuni diritti fondamentali. Tralasciando il tema, pure importante, delle regole economiche, cioè la tutela del copyright o la remunerazione degli operatori di rete o dei fornitori di contenuti, la questione che si pone sempre più con maggiore urgenza è quella di dare una risposta ad un'inquietante prospettiva: l'umanità in futuro si dividerà in due categorie, coloro i quali possono pagare l'accesso ai contenuti e coloro che non possono sostenere questa spesa? Anche in questo caso si cominciano a percepire le visioni di questo futuro: un web meno libero e sempre più a circuiti chiusi, come nel caso delle applicazioni per l'iPad.
Chris Anderson giudica poi non così male questa prospettiva, pare dire: è il capitalismo bellezza. Internet è cresciuta e commercialmente il modello originario totalmente aperto non resiste più.
Peccato che non parliamo di un prodotto industriale qualunque. Internet ci investe completamente nella nostra vita e sarà sempre più così. Una visione solo economica non regge. La pervasività del mezzo impone un approccio antropico, con l'individuo al centro.
Il tema quindi dovrebbe essere quello di mantenere nella rete alte condizioni di libertà e di tutela dei diritti dell'utente, anche di quello economicamente svantaggiato. Per l'immediato, spazio adeguato accanto ai "giardini recintati" a forme di offerta, con buon livello di servizio, che consentano una fruizione dei contenuti non necessariamente collegata alla diretta remunerazione da parte del consumatore. Insomma per proseguire nel paragone "verde", un ambiente di giardini privati ma anche di grandi parchi pubblici.
Tuttavia, la moltitudine di informazioni non significa necessariamente maggiore libertà. Si pone un'ulteriore riflessione: la neutralità della ricerca. Sappiamo, anzi diamo ormai per scontato, che esistono soggetti che gestiscono questa grande massa di informazioni che indirizzano e tracciano i nostri percorsi di ricerca: i grandi motori, come Google, che tanto possono condizionare la nostra navigazione. Quali strumenti in questo caso? Difficile dare risposte sul piano della terzietà della ricerca. Più facile, in un certo senso, per gli aspetti legati alla privacy, dove comunque c'è molto ancora da scrivere e da vigilare.
Neutralità della ricerca e uso dei prodotti informativi altrui sono concetti che chiamano in causa la responsabilità editoriale. L'editore, certo non quello attuale, più che l'aggregatore potrà dare una risposta. Oggi l'attività di comunicazione, di informazione, si risolve grandemente sul piano della reputazione. D'altra parte, si tratta di un paradigma che ha caratterizzato lo stesso sviluppo della rete.
Perché dunque credere nell'editore? Perché, almeno in astratto, è figlio di questa cultura della responsabilità.
Ma con quello che succede oggi è possibile una prospettiva di questo tipo? A vedere il ruolo sempre più importante degli aggregatori, dei costruttori di device, dei detentori di software, la battaglia sembra persa. C'è però un cuneo. La necessità, appunto antropologica, ad essere nel web. Non potrà esistere un'umanità fuori, non è concepibile un futuro così.
Ed allora, si potrebbe dire che ne vedremo delle belle e che ciò che appare scontato in una visione esclusivamente economica forse potrebbe evolversi in modo diverso (le regole potrebbero giocare un ruolo importante incidendo sul rapporto economico tra accesso e contenuti a circuito chiuso e tra questi ultimi e gli editori - la domanda di differenziazione dei contenuti potrebbe non incontrarsi con l'universalismo dei prodotti sviluppati sui tablet).
D'altra parte, la stessa governance della rete ha resistito ai goffi tentativi di imbrigliarla (qui è vero che la tecnologia non si può fermare). Sul web la governance non assume forme esterne, legate al rapporto capitale/autorità, ma si fonda dentro la stessa rete in "un governo del sé", come si potrebbe dire pensando la suggestiva opera di Foucault.
Dunque, saremo più liberi di comunicare, avremo un futuro migliore nell'uso della rete?
Castells dice, nel suo bel saggio "Comunicazione e potere", non è la tecnologia di per sé, sono le scelte regolatorie che ci porteranno da una parte o dall'altra. Internet non è forse una formula di autogoverno perfetto ma che lo vogliamo oppure no è ormai un paradigma sociale a cui forse anche la politica dovrebbe guardare (non come un mito e un mezzo, ma come esperimento di libertà, di reputazione, di potere reticolare).
In fin dei conti, parafrasando l'Apologia di Socrate di Platone, potremmo dire: la tecnologia è un bel cavallo, bisogna capire da che parte ci porta il cavaliere.

 

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